La donna di Colchide e la prima nave. Riflessione sul mito di Medea

La mitologia è una materia difficile da toccare, insidiosa per chi non ha i giusti strumenti, per chi non ha conoscenza del contesto di produzione. I miti che compongono il patrimonio di un determinato popolo non costituiscono racconti isolati, indipendenti, ma un insieme organico nel quale non è sempre facile sapersi orientare (nota 1).

L'approccio alla mitologia greca nasconde un'ulteriore complicazione: la produzione mitica ci è arrivata in forme diverse, pochissime liturgiche, per lo più letterarie. Questo non ha comunque fatto venire meno un carattere fondamentale di ogni mitologia: le varianti. Lévi-Strauss sostiene che un mito non sia altro che l'insieme di tutte le sue varianti, profondamente interconnesse (nota 2). In quanto unità “il mito sussisterà finché sarà rispettata la presenza di un certo numero di invarianti e di mitemi, cioè elementi costitutivi fondamentali e identificatori del racconto” (nota 3).

Questa premessa per dire cosa? Che un mito vive nelle sue varianti, che si trasforma nel suo viaggiare nel tempo, in base ai contesti geografici, politici e culturali dai quali viene adottato.

Non fanno eccezione le grandi figure consegnateci dai tragici. Ma qui il discorso si complica. La bellezza letteraria, l'attualità di questi testi, il valore che supera di molto quello della semplice liturgia li ha spesso investiti di un'autorità assoluta. È il triste destino di Medea, che si è fossilizzata nell'immagine che ne ha dato Euripide: madre assassina, strega sanguinaria, traditrice di ogni patria. Eppure altre storie ci raccontano una Medea diversa.

Occorrerà innanzitutto disegnare il contesto mitico dal quale proveniva la nobile strega, almeno nella sua versione euripidea. Il padre Eete, fratello di Circe e Pasifae, regnava sulla terra di Colchide, reame dalle ricchezze favolose, legato alle fasi antiche della storia mitica (nota 4). Questa terra, situata sulla sponda orientale del Mar Nero (Ponto Eusino), si colloca ai limiti più estremi dell'universo mitico greco, confinante con la Scizia, alle porte dello sconosciuto. Qui, in un boschetto sacro ad Ares, un terribile drago faceva buona guardia al vello d'oro. Qui era nata la giovane Medea (nota 5).

Verso questa terra veleggiano gli Argonauti, per compiere la grande impresa di recuperare il vello (nota 6). Dove molti eroi fieri e forti avevano fallito, Giasone riesce superando varie prove, con l'aiuto indispensabile delle arti magiche di Medea, disposta per amore a tradire il padre e la patria. Quello degli Argonauti non fu un viaggio qualunque però, secondo diverse attestazioni fu il primo viaggio della storia e Argo, di conseguenza, la prima nave (nota 7).

Dopo l'impresa, Giasone e Medea fanno ritorno in patria, sconfiggendo i Colchi che si erano lanciati all'inseguimento. Per fuggire Medea sarà costretta a straziare orribilmente il fratello Apsirto (oppure lo farà Giasone, a seconda della versione (nota 8). Ma le loro peregrinazioni non sono finite. Cacciati da Iolco, patria di Giasone, per aver ucciso l'usurpatore Pelia, i due troveranno rifugio a Corinto. È questo il momento in cui si colloca il dramma di Euripide.

A Corinto Giasone può aspirare al trono, ma per farlo deve ripudiare Medea e sposare Glauce, figlia di Creonte. L'eroe non ha dubbi sul da farsi e chiede comprensione alla figlia di Eete. Accecata dalla gelosia, dal tradimento, Medea ordisce le sue trame e uccide la rivale e il padre di questa. Ma la tragedia non è ancora compiuta, la strega non ha ancora raggiunto il punto più basso della sua follia. Col cuore in tumulto Medea mantiene la mano ferma e toglie la vita ai figli che ha avuto da Giasone. Nella fuga la rincorrono le parole del marito:

Ora ragiono, ma non ragionavo quando dalla tua dimora, da una terra di barbari, ti condussi in una casa greca, o rovina grande, traditrice di tuo padre e della terra che ti nutriva! Come un demone maligno gli dei ti hanno scagliata contro di me! Dopo aver ucciso presso l'altare tuo fratello, salisti sulla nave Argo bella prora. Così hai cominciato e dopo avermi sposato e avermi dato figli, li hai sacrificati al tuo letto! Nessuna donna greca lo avrebbe osato. (nota 9) 

Ci sono notizie anche delle successive peregrinazioni di Medea, ma per il nostro discorso sarà utile fermarsi qui. Abbiamo detto che un mito vive nelle sue diverse varianti, e che queste nascono dai differenti e  mutevoli contesti in cui la storia si trova a viaggiare. In questo senso la mitologia è un fenomeno storico. Ma a che serve il mito? Il mito non spiega, non fornisce la ragione delle cose, il mito fonda la realtà, rassicura, sanziona l'ordine del mondo in una prospettiva religiosa (nota 10). In questo senso la mitologia è un fenomeno religioso.

Le parole che Euripide mette in bocca a Giasone acquistano così tutto un altro spessore. Si traccia qui una linea precisa, si sceglie una versione del mito: quella in cui la strega Medea tradisce la patria, fa a pezzi il fratello e uccide i figli. La grandezza di Euripide non lascia scampo alla figlia di Eete, che sarà da allora legata senza possibilità di redenzione a una storia di infanticidio, al punto che la psicoanalisi darà il suo nome a un complesso (nota 11).

Tra gli studiosi naturalmente si è sempre conosciuta la verità, ma questa ha faticato ad uscire fuori. Nel discorso comune Medea è ancora oggi soltanto la madre assassina dei suoi figli (nota 12).

Che qualcosa in questa storia non andava lo urlò, con la forza di una scrittura potente, Christa Wolf nel 1996 (nota 13). C'era già stato, certo, chi aveva sollevato qualche dubbio, chi aveva preso le difese del mondo selvaggio della Colchide, contro la ragione greca (nota14) ma Medea era sempre rimasta la strega infanticida.

La Wolf si spinge oltre, recupera le versioni alternative del mito per raccontare una storia diversa. Non una strega, ma una guaritrice (il nome Medea deriva da μήδομαι, che oltre a “tramare” ha il significato di “consigliare”, “occuparsi di”), tradita dal marito, costretta a vivere ai margini di una città che la guarda con sospetto, perché straniera, perché donna. “Non un'infanticida, dunque, al contrario una donna forte e generosa, depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra, che una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a lapidarle i figli” (nota 15).

In questa versione alternativa, infatti, furono i corinzi a lapidare i piccoli figli di Medea, per l'odio che le portavano (nota 16). Arriverà poi Euripide, “che i Corinzi corruppero con quindici talenti” (nota 17), a cambiare il corso della storia. E il suo intervento non lasciò spazio a repliche, anche in quanto “ogni dramma che vincesse un premio alle annuali feste ateniesi in onore di Dioniso acquistava ipso facto un valore religioso e faceva testo nell'argomento” (nota 18).

Su questa base la Wolf innesta una proposta di analisi che è stata recepita, non a torto, soprattutto nell'ambito del femminismo teorico: la figura di Medea è stata ribaltata per il bisogno patriarcale di depotenziare l'immagine femminile, di mettere in crisi il pensiero differente di una società matriarcale (nota 19). Il ragionamento viene supportato dalla parentela di Medea con Circe e Pasifae, donne potenti e terribili, dalle passioni smisurate.

Il nostro intento sarebbe però quello di spingere il pensiero più in là. Il ciclo mitico degli Argonauti, legato strettamente al mito di Giasone e Medea, è antichissimo, di origine micenea (nota 20). Se ne trova traccia anche in Omero, che colloca il viaggio di questi eroi prima della guerra di Troia (nota 21).

La storia di Medea è quindi indissolubilmente legata alla storia della prima nave, Argo. Il viaggio degli Argonauti fonda la navigazione mediterranea, i rapporti con le terre altre. Che tipo di rapporti? Commerciali innanzitutto, tanto che “ogni città doveva vantare un rappresentante tra gli Argonauti per giustificare i suoi diritti di traffico nel Mar Nero, e gli aedi ambulanti erano ben disposti a introdurre qualche nome in più” (nota 22). Ma il mito di Medea sembra dire anche qualcos'altro. I rapporti devono essere solo commerciali, ogni altro contatto sarebbe foriero di disgrazie.

Questo assunto sembra in fondo attraversare sia la storia della Medea che porta consigli, che quella dell'infanticida. L'una e l'altra dimostrano l'impossibilità di un dialogo tra culture. Ma se nella prima vi è il sospetto che, forse, la ragione di questa impossibilità risieda nell'incapacità della civiltà greca di ascoltare una voce differente, lontana, voce di donna, nella seconda questo sospetto è fugato. Medea è una strega, una barbara, demone a metà tra uomini e dèi, le sue parole sono accordi dissonanti, la sua mente rifiuta il raziocinio e si abbandona agli impulsi più efferati. Questo ci dice il Giasone di Euripide. Di fare attenzione ai barbari che vengono da lontano, di fare attenzione alle donne, condividono la stessa lingua priva di ragione.

Forse allora non basta il generoso compenso dei corinzi per spiegarsi perché Euripide scelse di scrivere la sua “Medea” recuperando una variante che, prima di lui, aveva ben poche attestazioni.  Forse occorre pensare che la tragedia fu scritta nel 431 a.C., agli albori dell'Atene di Socrate. Platone e Aristotele erano ancora di là da venire, ma il logos greco cominciava già a muovere i suoi passi. Nasceva già quel pensiero di condanna nei confronti della donna e dello straniero (nota 23).

Allora non bastava più semplicemente collocare Medea nel paese dell'alterità, mostrare i sommovimenti da lei causati per mettere in guardia la razionalità dal pericolo che andava correndo. Serviva un'operazione più netta, che non lasciasse spazio ad ambiguità: Medea smise così integralmente i panni della guaritrice, della sacerdotessa, per indossare quelli della strega, di portatrice del male. D'altronde fin dai poemi di Esiodo la donna è descritta come colei che ha portato il male nel mondo. La linea è presto tracciata, Medea è consegnata alla storia come infanticida.

Eppure le varianti sopravvissute al dominio di Euripide ci ricordano che forse in quel mito frutto di un'età anteriore risiedeva un pensiero differente. Proprio il consapevole metterlo a tacere ha rappresentato un momento di svolta nel pensiero greco: le radici mitiche del rapporto coi popoli differenti, e con il diverso in generale, sono state fondate sulla scia di sangue di un demone femminile. Il vello d'oro è tornato in patria, certo, lo scambio di merci è divenuto possibile. Ma guai a lasciarsi contagiare in qualunque altro modo! Bisogna mantenere pura la propria lingua, non farla corrompere da indistinti balbettii.

Due immagini quindi di Medea, ma altre ce ne potrebbero essere, in un'infinità di sfumature, una molteplicità di versioni. Non sono una più vera dell'altra, non può valere nessun ragionamento di priorità temporale. Valgono ciascuna per il proprio contesto di produzione, per la propria storia, per il pensiero che le sostiene.

Ma sicuramente ce n'è una più bella, una che è frutto di un pensiero che non ha ancora rinunciato al rapporto uomo-donna, che non condanna. E la questione diventa perché questa sia risultata perdente, perché la Medea pazza di Euripide abbia trionfato. Non sono una più vera dell'altra, è certo, ma una racconta meno menzogne sulle possibilità umane.

Questo ci dicono le storie della strega di Colchide. Ci dicono di come l'uomo greco abbia perso, dietro lo straniero, il rapporto con la donna. Lo sapeva bene la Medea della Wolf, che ascoltando i canti degli intolleranti corinzi diceva all'amato: “di noi hanno fatto ciò di cui avevano bisogno. Di te l'eroe, e di me la donna malvagia. Così ci hanno allontanati l'uno dall'altra” (nota 24).



1    BRELICH, A., Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell'Ateneo, Roma 2006, pp. 10-11

2    LÉVI-STRAUSS, C., Antropologia strutturale, Il saggiatore, Milano 2009, p. 243

3    SOUILLIER, D.; TROUBETZKOY, W. (a cura di), Letteratura comparata. Vol. 1 - Che cos'è la letteratura comparata, Armando editore, Roma 2002, p. 28

4    Secondo alcune tradizioni era in questa terra che Prometeo, sull'alto di un monte, scontava il suo supplizio.

5    Altre fonti riferiscono altre collocazioni per il regno di Eete. Cfr. GRAVES, R., I miti greci, Longanesi, Milano 2000, pp. 537-541

7    MANILIO, Astronomica, lib. I; OVIDIO, Le metamorfosi, lib. VII; PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historia, lib. VII, 207

8    Cfr. GRAVES, R., I miti greci, Longanesi, Milano 2000, pp. 557-560

9    EURIPIDE, Medea, vv. 1329-1350

10       BRELICH, A., Come funzionano i miti. L'universo mitologico di una cultura melanesiana, Edizioni Dedalo, Bari, pp. 31-32

12       A titolo d'esempio cfr. CITATI, P., “Medea nel paese delle streghe. Così la scoperta dell’amore diventa una condanna”, Corriere della Sera, 11 giugno 2011; DI STEFANO, P., “Patologie. Padri che uccidono i figli come Medea”, Corriere della Sera, 31 gennaio 2016; RECALCATI, M., “I tabù del mondo un lungo viaggio alla scoperta di ciò che siamo. Edipo, Elettra, Medea, Amleto sono figure che incarnano la dialettica legge-desiderio”, la Repubblica, 2 gennaio 2016;

13       WOLF, C., Medea. Voci, Edizioni E/O, Roma 1996

14       GRILLPARZER, F., Il vello d'oro, 1821; Medea (PASOLINI, P. P., 1969)

15       CHIARLONI, A., Postfazione, in WOLF, C., Op. cit., p. 238

16       Cfr. ELIANO, Storie varie, lib. V, 21; PAUSANIA, Viaggio in Grecia, lib. II, 3, 6;  PSEUDO-APOLLODORO, Biblioteca, lib. I, 9, 28

17       GRAVES, R., Op. cit., p. 571

18       Idem, p. 572

19       CHIARLONI, A., Postfazione, in WOLF, C., Op. cit., p. 240

20       CARDARELLI, F. M., Il vello d'oro dal mito alla realtà, <http://www.urp.cnr.it/divulgazione/articolo.php?id=14&tit=articolo>, 16 gennaio 2012

21       LORDKIPANIDZE, N., Il vello d’oro, mito o realtà?, in D'ACCHILLE, T., Il vello d'oro. Antichi tesori della Giorgia, Palombi, Roma 2011, p. 59

22       GRAVES, R., Op. cit., p. 540

23       CAVARERO, A., Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia greca, Ombre Corte, Verona 2009; POMEROY, S. B., Goddesses, whores, wives, and slaves. Women in classical antiquity, Schoken Books, New York 1975

24       WOLF, C., Op. cit., p. 57

 

 

A cura di Andreas Iacarella